L’isola Grande, l’isola dei Profumi.

Bhè… Come descrivere l’emozione provata vedendo per la prima volta Nosy Be a poche centinaia di metri sotto di me mentre discendevo in volo verso l’aeroporto di Fascene? Quasi non riuscivo a capacitarmi delle tante sfumature di colore dell’oceano che piano piano diventava barriera corallina e poi ancora mangrovie e poi ancora lembi di sabbia bianca e poi ancora verde foresta… con i suoi 321 Km quadrati di splendore Nosy Be rigogliosa e superba si distende sulla costa nord-occidentale del Madagascar, a separarla dall’Africa, solo il Canale del Mozambico.

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L’Isola è favorita dal clima tropicale: fertile e prosperosa, ospita piantagioni di vaniglia, canna da zucchero, caffè, pepe, zafferano, cannella, Ylang-ylang… L’interno di Nosy Be, è mutevole e vario, ricco di acqua dolce con i sui fiumi, ben 12 laghi vulcanici, e le bellissime Cascate Sacre di Ampasindava

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Nosy Be appartiene alla provincia di Antsiranana ( regione Diana ) e conta circa 60.000 abitanti. In lingua malgascia “Nosy Be” significa “Grande Isola” ma nel corso dei secoli le furono attribuiti diversi nomi. Data la naturale presenza delle foreste di Ylang Ylang, dal quale si estrae l’omonima essenza, e molteplici altre piante tropicali super profumate come il frangipane, l’hibiscus, le orchidee… quello a cui simo più affezionati, come del resto tutti i malgasci è certamente il nome di “Nosy Mangitry” o “Nosy Manitra” che significa “Isola dei Profumi”.

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“…mi ricordo mamma che anticipava il sorgere del sole uscendo a lavorare nei campi per trovare cibo a noi quattro, io ero il più grande e dovevo sorvegliare gli altri, Nanà, Zazà e Zozò, dall’unico letto d’erba che condividevamo salivano gli odori della notte mescolati a quelli del mattino, le donne già cucinavano sui fuochi ma il fumo del carbone mescolato ai mille altri del villaggio, allora composto solo da poche capanne, non riuscivano a coprire l’essenza che si espandeva dai carri ricolmi di fiori gialli in processione verso la distilleria… respiravamo tirando profondamente dal naso e ci facevamo riempire da questo profumo che ci saziava anche se avevamo fame… ” ( F.B. de Cocò )

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Riportiamo un pezzo che ci piace molto e rispecchia il paese in modo cristallino e attuale è tratto da Shan Newspaper ed è scritto dal bravo Guido Barosio – giornalista, fotografo, scrittore e direttore della rivista Torino Magazine.

Eccolo:

L’eccellenza turistica del Madagascar: il disegno di spiagge immacolate, fondali celesti dove nuotare con tartarughe giganti, il profumo di spezie e ylang-ylang, il sorriso accogliente dei bambini, tessuti drappeggiati nel vento, resort sofisticati e villaggi.

Il fascino di un viaggio edonista nel cuore della natura 

Un Madagascar in miniatura con suggestioni creole e francesi, il cuore di un piccolo arcipelago nel canale del Mozambico dove l’architettura marina mette in scena palmeti e spiagge abbaglianti, reef e dolci maree che ridisegnano in continuazione il panorama, fondali tersi di un azzurro profondo. Ma il ‘visibile’ è magicamente arricchito da un ‘invisibile’ fatto di profumi forti, delicati e persistenti: vaniglia, caffè, cacao, geranio, orchidea, frangipane e cannella, il prezioso e intensissimo ‘poivre sauvage’, il sensuale ylang-ylang, essenza particolarmente amata in cosmesi e base del mitico Chanel n.5. Impossibile non venir rapidamente sedotti da Nosy Be: l’isola incantata dove tutto è ‘mora mora’ (piano piano), perché i ritmi di ogni cosa sono governati da una natura complice e guardiana, adorata e protetta da riti ancestrali e animisti di evidente forza millenaria. Un paradiso terrestre coi suoi problemi (e chi non li ha), ma dove presenza turistica e tradizioni locali coesistono con serenità difficilmente riscontrabile in altri lidi. Siamo in un’isola povera – almeno secondo gli standard occidentali – ma siamo anche in una terra dove si comprende bene come il Pil non sia l’unità di misura della felicità. Andata in crisi da qualche anno l’industria della canna da zucchero (l’unica forma d’imprenditoria locale moderna), gli abitanti vivono di pesca, agricoltura e allevamento.

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In questi 300 chilometri quadrati, praticamente non esistono latifondi o grandi proprietà; si coltivano fazzoletti di terra che spesso appartenevano già agli antenati, si affronta un mare particolarmente pescoso con barche a bilanciere che sembrano sbucare da un fumetto di Corto Maltese, si passa buona parte del tempo ‘attendendo’ che si gonfi la rete o che le piante offrano i loro frutti. ‘Mora mora’, piano piano, appunto, perché tanto accigliarsi nella corsa non serve a nulla. Tutto viene venduto nelle infinite bancarelle dei piccoli mercati, tra contrattazioni svelte e animate, tra gente che si conosce bene e s’incontra ogni giorno. Il resto lo ha fatto il turismo, che ha sostituito la canna da zucchero come attività economica organizzata. Un turismo in forte crescita per evidenti ragioni di appeal ambientale e sicurezza: mare stupendo e infinite location raggiungibili in giornata, clima temperato primaverile e ventilato con 25-30 gradi in media durante tutto l’anno, due soli mesi (gennaio e febbraio) resi problematici dalla stagione delle piogge, niente malaria o malattie tropicali (anche se le principali vaccinazioni sono sempre consigliate), nessun problema di terrorismo o delinquenza, si sciabatta tranquillamente per spiagge e villaggi certi di non essere mai importunati.
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A Nosy Be vincono il sorriso e la curiosità, l’ospite è davvero un ospite e – anche se rappresenta un’evidente fonte di reddito – non viene pressato più di tanto, neanche durante il proverbiale rito della contrattazione e dell’acquisto. Nosy Be, Madagascar in miniatura? Certo, ma con alcuni distinguo e numerosi punti a favore. Infinitamente più piccola della ‘Grande Terre’, l’isola è più malgascia che africana per fauna e ambiente. Come nella madre patria, sono numerose le specie endemiche – da conoscere i lemuri, vivacissimi e socievoli primati, molto frequenti nelle aree forestali – e totalmente assenti altri animali della fauna africana: grandi felini, elefanti, zebre, giraffe… Si parla sia la lingua locale (che varia da tribù a tribù) che il francese, il patrimonio naturalistico è di grande impatto visivo (laghi vulcanici, monti, foreste, spiagge…) e le religioni sono tre: animista (50%), cristiana (40%) e mussulmana (10%). In tutta l’area la coesistenza tra le fedi è ottima, gestita amichevolmente senza prevaricazioni o soprusi.
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La storia di Nosy Be ha alcune peculiarità proprie, a partire dal dominio francese, arrivato con mezzo secolo di anticipo rispetto al Madagascar. Altro fattore di unicità è la componente etnica, riflesso meticcio di continui passaggi, approdi, naufragi e insediamenti più o meno stabili. I primi abitanti – probabilmente africani e indonesiani – arrivarono sull’isola 2mila anni fa portati dalle correnti e dalle tempeste, e ancora oggi si ricordano i nomi di quelle tribù ancestrali e leggendarie: Antankarana, Zafinofotsy e Antandroy, a cui si aggiunsero gli indiani e gli indigeni delle vicine (si fa per dire) isole Comore. Col passare del tempo, la posizione strategica di Nosy Be favorì il contatto, non sempre pacifico, con flotte arabe, portoghesi e indiane, oppure battenti il vessillo nero col teschio dei pirati. La prima unificazione politica avvenne all’inizio del XIX secolo col sovrano Radama I e, parallelamente, trovò rifugio a Nosy Be la dinastia, sconfitta a Grande Terre, dei Sakalava. Furono questi ultimi – con la regina Sakalava Tsiomeko – a chiedere soccorso ai francesi. Il capitano di vascello Passot (a cui è dedicato il monte più alto dell’isola) propose all’ammiraglio Hell (governatore a La Réunion) di mettere Nosy Be sotto la sua protezione. Un primo passo che aprì le porte alla dominazione coloniale, perché nel 1841 la regina Tsiomeko cedette l’isola ai francesi. La svolta non fu solo politica e militare, ma anche economica; nei decenni successivi si svilupparono l’industria dello zucchero (con la produzione di un apprezzatissimo rhum) e la cultura del caffè, della vaniglia, delle spezie e del già citato ylang-ylang.
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L’indipendenza arrivò, come per il resto del Madagascar, il 26 giugno del 1960. Vicende burrascose col sapore dell’avventura: palme, sciabole, cannoni, pirati e conquistatori sotto il sole dei Tropici; traffici, guerrieri, sovrani e migranti che hanno lasciato un cocktail umano dal dna inafferrabile.

SAM_0213Meticcia per definizione ed etnicamente sfuggente a ogni classificazione, Nosy Be ha ereditato da queste vicende uno spirito aperto e tollerante, incline all’accoglienza in quello che è sempre stato un porto e una capanna per tutti. Così – mora mora – nessuno da queste parti può ritenersi autoctono più di altri. Nonostante le dimensioni ridotte, il paesaggio cambia in continuazione, come la formula genetica dei suoi abitanti. Il punto panoramico ideale è il Mont Passot, coi suoi 329 metri, dal quale si possono ammirare tramonti incendiati e l’intera baia di Nosy Manitra, con tutte le isolette che formano l’arcipelago. All’interno foreste fitte, canali assediati dalle mangrovie, piccoli appezzamenti coltivati, undici laghi vulcanici, immersi nel verde e popolati da enormi coccodrilli nilotici che sconsigliano ogni forma di balneazione, se non si vuole entrare a far parte della loro dieta, che prevede pesci, piccoli mammiferi, ma – talvolta – anche i più imprudenti tra gli zebù, che si avvicinano alle acque per bere e rinfrescarsi. La presenza dei grandi rettili appartiene al mito come alla scienza. Il loro arrivo risale ai tempi antichissimi della Pangea, quando valicarono l’oceano, all’epoca meno vasto e quindi percorribile da ‘imbarcazioni animali’.

Allora come oggi, possono raggiungere i dieci metri di lunghezza. Questi coccodrilli dispongono di una ghiandola in grado di filtrare l’acqua marina, ma – per gli antichi abitanti dell’isola – la loro migrazione ancestrale rappresenta un mistero. Ed è attorno al concetto di ‘mistero’ e di ‘sacro’ che si è consolidata la religione animista. A Nosy Be si incontrano diverse rappresentazioni della natura che gli abitanti definiscono ‘sacre’: grandi alberi, isole, animali, comportamenti umani e meteorologici … Sorprendente e sintetico il chiarimento che viene fornito dai nativi: «Cos’è il sacro?». «Tutto ciò che non è spiegabile». Quindi il coccodrillo che vive nelle acque, ma – durante la siccità – si mette in marcia e ‘cerca’ laghi ancora balneabili. Sacri sono i ‘non morti’ o i morti ancora viventi.

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Sacro è il più grande albero dell’arcipelago – o forse del mondo intero – con radici che affondano per 5mila metri quadrati. Sacra è la cascata continuamente vitale. Sacri sono i luoghi delle sepolture isolati e inaccessibili. Sacri sono i laghi profondi e baciati dagli alberi. Al sacro si porgono omaggio e devozione, al sacro ‘si sacrifica’ col sangue. E spesso la sorte pone al centro del rito lo zebù: simile al bue, con la tipica gobba sopra la testa, è il mammifero fondamentale al sostentamento della famiglia. Compagno di vita e lavoro nei campi, lo zebù fornisce anche cibo per la tavola, ossa e pelli per i manufatti, rappresenta per i malgasci l’animale totem, come la renna per i lapponi. Latitudini lontane che si specchiano nella vita dei ‘popoli naturali’. Se il mare e i campi forniscono il sostegno basilare, è nel villaggio che si concentrano lo scambio, il commercio e la socializzazione. A questo proposito consigliamo di trascurare Ambatoloaka-Madirokely – più sguaiatamente turistica, divertente ma senza originalità – per dedicarsi a Hell Ville, capoluogo che prende il nome dal primo conquistatore francese. Porto e casette coloniali, vie animatissime, mercati e traffici, colori e profumi in continua esposizione. Frequentandola si capisce la triade delle abitazioni locali: i meno abbienti vivono in case di legno – totalmente basiche e tradizionali, come nei più piccoli villaggi – quando il tenore di vita sale si costruisce in lamiera – impianto più robusto, ma clima rovente – se arriva il benessere compare la muratura, di concetto occidentale, sovente l’icona del successo. Ma l’abitazione resta sempre e comunque luogo di passaggio, dove dormire ma non ‘dove stare’: la vita nelle isole è ‘in giro’, mora mora, cercando quello che ti serve e osservando quanto ti circonda.
IMG_0733Tra le passioni locali merita un posto di tutto rispetto il morengy, popolarissima arte marziale malgascia: a metà strada tra boxe e kickboxing, si combatte a mani e piedi nudi, praticamente senza regole, in match rapidissimi e cruenti (i round durano 30 secondi) e ha come obiettivo il ko, ma si può anche vincere ai punti. Gli incontri si disputano la domenica, in arene affollatissime, al ritmo assordante e fragoroso della musica locale, con un pubblico drogato dall’evento al punto da scommettere ogni avere: bici, moto, auto, qualche volta persino la casa… Rito ancestrale aggiornato con varianti contemporanee (mosse da rapper di pubblico e atleti, machismo esibito come nei B movie americani e orientali), va visto e affrontato con curiosità partecipe, ma – occhio – è spettacolo per cuori saldi, come il palio o la corrida. Un viaggio a Nosy Be richiede essenzialmente una settimana; volendo due, con la seconda passata a godersi le spiagge oppure a esplorare il nord di Grande Terre, con le sue incontaminate attrattive naturalistiche. Ideale per organizzare il soggiorno è la scelta di una location unica e strategica: le strade sono decenti, il traffico accettabile e in meno di un’ora di auto si raggiunge ogni attrattiva locale.

Per gli appassionati di natura tropicale vale un’intera giornata la visita alla riserva naturale di Lokobe: panoramicamente situata a 450 metri di altitudine, permette una regressione temporale verso epoche lontane, quando tutta l’isola era avvolta dalla foresta primaria con le sue numerose specie endemiche, animali e floreali. Si incontrano facilmente lemuri diurni e notturni, serpenti, volpi volanti (ormai quasi scomparse perché ritenute una ghiottoneria dai nativi…), serpenti, anfibi, una variopinta gamma di volatili, oltre ai camaleonti e alle rane più piccole del mondo.

Madagascar_Lemure_shutterstock_128223032Ma, senza nulla togliere al fascino di un’isola ricca di emozioni e scenari impattanti, la vera meraviglia arriva dal mare. Ogni perla dell’arcipelago è preceduta dal termine Nosy (che vuol dire isola) e non ne esistono due uguali, per una continua esplorazione di approdi ciascuno dei quali merita il viaggio.

SAM_0968La più giustamente celebre è Nosy Iranja: la ‘doppia isola’, congiunta e divisa (a seconda delle maree) da un striscia di sabbia candida che separa il blu nelle sue diverse tonalità. Dopo aver subìto attoniti l’impatto con tanto splendore, si può procedere verso l’interno raggiungendo un piccolo villaggio di pescatori, con tanto di faro e scuola aperta ai venti dell’oceano. Chi organizza le escursioni non manca mai di proporre un catering tropicale a base di aragosta e, nei momenti di ozio, si può scegliere il proprio tessuto preferito. Perché una delle più apprezzate forme di artigianato è la produzione di stoffe in cotone dai colori sgargianti o candidi, sovente ricamate con disegni che richiamano la flora e la fauna locale. I grandi teli vengono proposti ‘appesi’, come subito dopo il bucato, creando lunghi filari nei quali avventurarsi osservando, palpeggiando e, inevitabilmente, contrattando per strappare il prezzo migliore. Altra isola, altro scenario. A Nosy Komba si va per incontrare i lemuri – particolarmente amichevoli se vi presentate muniti di banane… –  e per trascorrere il tempo tra le viuzze del villaggio, verificando dal vivo la maestria degli intagliatori di legno. Chi ama lo snorkeling troverà il proprio paradiso a Nosy Tanikely: acque terse e trasparenti fino all’impossibile, fondale di corallo, pesci tropicali ma – soprattutto – tante, tantissime tartarughe giganti. Sono loro le solenni signore delle acque, si fanno avvicinare senza timore, sembrano osservarti assorte e – quando sei fortunato – ti offrono il privilegio di nuotare con loro, ospite accolto con benevolenza e curiosità. Ma l’elenco delle ‘Nosy’ può continuare all’infinito: ricordiamo ancora Momoko, col suo villaggio di pescatori che sembra emergere da un libro di avventure, Sakatia, l’isola delle orchidee, e Fanihy, sacra agli animisti, dove vivere l’esperienza di Robinson Crusoe. In questo caso non sai se paga di più il contesto o l’esperienza. Nosy Fanihy è completamente disabitata, i nativi vi approdavano esclusivamente per celebrare i loro riti nella foresta, impenetrabile come una muraglia color smeraldo.

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Ancora oggi ‘il verde’ non si vìola, per rispetto degli antenati e non solo per difficoltà oggettive. Ma la spiaggia resta ‘libera’, come lo fu anticamente per pescatori e pirati. Ed è su questa spiaggia che viene proposta l’esperienza ‘notte sotto le stelle’: si approda verso sera, la barca riparte una volta lasciato l’equipaggio e si vivono le ore che separano dall’alba come naufraghi felici. Si gode del tramonto fiammeggiante, si passeggia sulla battigia, si accende il fuoco e si montano le tende. Quello che resta è la sensazione impagabile di isolamento e immersione in un paesaggio rimasto identico dal giorno della creazione: sabbia, conchiglie, coralli, onde, alberi… e un’isola ‘dipinta’ nel mare, con la sua lunga lingua di sabbia abbagliante che le maree rivelano, per poi, quotidianamente, tornare a cancellare. Come sempre, dopo ogni viaggio ‘conti’ i ricordi. I più forti quasi ti impongono di usare per Nosy Be quello che fu il suo nome originale: Nosy Manitra, ‘isola dei profumi’. Perché in questo arcipelago, emerso dai vulcani nel canale del Mozambico, non ci si limita mai a ‘vedere’, ma ogni altro senso – olfatto su tutti – completa la magia, rendendola unica e ricordabile. Perfettamente evocabile anche dopo 11 ore di volo, quando – aperta la valigia – pepe selvaggio e ylang-ylang si ridestano, rammentandoti velocemente la rotta percorsa e le sue fragranze.

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